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Giorgio Reineri scrive per noi......

Usain Bolt ha sconfitto, nella finale mondiale dei 100 metri, anche l’infido clima russo. Con un ghiribizzo tanto improvviso quanto inatteso il cielo moscovita s’era difatti riempito di lampi e tuoni, quasi volesse gareggiare in saette – bolt, per l’appunto – con il giamaicano. Pochi minuti prima che gli otto atleti venissero chiamati ai blocchi l’acqua aveva preso a precipitare sullo stadio Olimpico “Luzhniki”, e la temperatura era calata di botto da ventotto a ventuno gradi. Una brezza maligna batteva sui petti degli sprinter, raffreddandone i bollori. Peggior prologo non poteva esserci, per la più attesa delle competizioni.
Imperturbabili eran rimasti i corridori,  mentre andavano schierandosi ai blocchi di partenza. Bolt, inginocchiato, aveva alzato un dito al cielo: non per domandare comprensione a Giove Pluvio ma per indicare, soltanto, da dove avrebbe tratto ispirazione e forza. Justin Gatlin, invece, era già immobile: bronzea statua che attendeva, con lo sparo, l’alito vitale.
Echeggiò, nel silenzio, il colpo secco dello start. Justin volò via, il corpo piegato, la testa protesa in avanti-basso, i passi rapidi e possenti. Guadagnò mezzo metro, o forse più, su Bolt che s’era rizzato d’incanto e spiegava l’ali. Il duello tra i due si fece magnifico: Justin era un toro che caricava, Usain un torero che gli voleva sfuggire. Per sessanta metri la corsa rimase in equilibrio, prima che le ampie ali di Bolt avessero ragione del toro scatenato. Nel diluvio, saettò sullo schermo eletronico il tempo del vincitore: 9’’77. Appena otto centesimi più tardi, Justin bloccò le fotocellule su 9’’85. Poi, arrivarono altri siluri: Carter, Bailey-Cole, Ashmeade, tutti giamaicani.
Ma quanti erano i giamaicani in gara, ci domandammo. Quattro? E perchè? Nell’agitazione del momento la cosa ci parve strana, ma non era tempo d’indagare. C’era, piuttosto, da celebrare: con quell’acqua e con quel calo di temperatura, i muscoli degli atleti avevano compiuto un miracolo. A tutti, difatti, si doveva abbonare un decimo di secondo rispetto a condizioni ottimali: in breve, senza pioggia e senza vento (contrario) Bolt avrebbe corso in 9’’67 e Gatlin in 9’’75. Ma l’atletica è un gioco all’aperto, e dunque non vale lamentarsi.
Lamentarsi, poi, di che? Quattro giamaicani e un americano sotto i dieci secondi netti, secondo previsioni. L’unica eccezione, lo statunitense Mike Rodgers: era rimasto imbambolato sui blocchi, preso da improvviso panico. E aveva pagato, con il sesto posto e un tempo, per lui, mediocre: 10”04. Epperò, proprio rivedendo l’arrivo ci ritornava alla mente il rovello: perchè quattro giamaicani?
Ah - ci rispose un tecnico con l’aria di sufficienza - perchè Bolt è campione in carica e tiene diritto di partecipare. Certi tecnici hanno la memoria corta: Bolt fu squalificato a Daegu, quindi non era il campione in carica. E chi era il campione in carica? Yohan Blake, giamaicano, ma assente per infortunio. Allora, perchè quattro giamaicani?
Nessuno conosceva la risposta. Ci disse un altro tecnico: la “wild card” di Blake transita al Paese, che ne può disporre a suo piacimento. Stupidità, pensammo subito: e, difatti, questa non è la regola. Per scoprirla, la regola, bisognava cercare col lanternino, dopo aver invano interrogato segretari di Federazioni e altri esperti. Cercare col lanternino, sino a incocciare in Sandro Giovannelli, l’ex direttore delle competizioni della IAAF.
Ci disse: è stato modificato il regolamento, lo scorso inverno, attribuendo una “wild card” anche ai vincitori della Golden League. Ma neppure il sapiente Giovannelli sapeva chi fosse stato, l’anno passato, il vincitore della Golden League sui 100 metri. E per scoprirlo, occorreva ricorrere alle carte: là stava scritto il nome di Bolt.
È un regolamento sciocco, ad esser generosi. Reso ancor più sciocco da tutta una serie di modifiche che attribuiscono altre “wild card” ai vincitori dei Giochi di Area, vale a dire i vari Campionati continentali. Non solo: pure i primi piazzati dei campionati mondiali di cross-country, così come i vincitori di alcune maratone – Gold Label marathon – pare abbiano il diritto ad esser iscritti ai Campionati del mondo anche se non in possesso di un risultato “standard A o B”.
L’ufficio “complicazioni cose semplice” ha lavorato, nell’inverno scorso, con straordinaria solerzia. Talvolta ci sorge il dubbio che silenziose talpe siano all’opera per rendere sempre più incomprensibile agli spettatori le manifestazioni atletiche. Quasi che, anche per il nostro mondo, l’antico detto – la madre degli stupidi è sempre incinta – continui a possedere un fondo di verità.