Guido Alessandrini ci conduce fra i ricordi di Giuseppina Leone in questa seconda puntata della sua "storia". Siamo agli esordi, primi anni '50, la ragazzina torinese si trovò catapultata nel mondo dei Giochi Olimpici, quelli finlandesi di Helsinki '52, quelli di Emil Zatopek, di Pino Dordoni, di Harrison "Ossa" Dillard (che aveva combattuto in Italia con i Buffalo Soldiers statunitensi, mitico corpo formato solo da afroamericani), dei grandi corridori veloci e resistenti della Giamaica, della riammissione degli atleti sovietici nell'agone olimpico. Lei, non ancora diciottenne, matricola in mezzo ai mitici giganti Consolini e Tosi, all'esuberante e un po' bricconcello Angiolone Profeti, a Carlo Vittori (proprio lui, il futuro mentore di Mennea) e ai velocisti piemontesi Giorgio Sobrero, torinese come lei, e Franco Leccese, di Condove, bassa Val Susa.
Un piccolo ripasso sulla sua partecipazione finlandese, con qualche annotazione a margine. Giuseppina corse - e vinse - la batteria, la sesta dei 100 metri: 12"2. Rifece lo stesso tempo nel quarto di finale, il primo, fu quarta, passavano le prime tre. Si conobbe dopo anni (grazie alle ricerche di un paziente storico inglese) il responso del cronometraggio elettrico, allora già in funzione, ma i tempi venivano comunque dati con il manuale: bene, l'apparato automatico racconta che l'olandese Van Duyne, poi divenuta Brouwer per matrimonio, terza, corse in 12"33 e Leone in 12"42, nove centesimi solo. Gli amanuensi delle lancette diedero 12"0 alla coltivatrice di tulipani e 12"2 a Giusy.
Quel quarto di finale fu vinto da Marjorie Jackson, che veniva dalla terra dei canguri, la quale vincerà l'oro olimpico, tanto sui 100 metri che sui 200. E ne avrebbe vinto quasi sicuramente un terzo, con la staffetta, se il diavolo non ci avesse messo la coda. Andò così. Batteria: il quartetto dell'Australia stabilì il nuovo primato del mondo, 46"1. Nella finale, le australiane erano in vantaggio al terzo cambio, Winsome Cripps (due volte quarta nelle due gare veloci) passò il bastoncino a Jackson, la quale nello scambio urtò una gamba della compagna e il testimone - di sventura in questo caso - cadde. Addio sogni di gloria. Le americane siglarono il primato del mondo (45"9) al pari con le tedesche (lo scarto fu di quattro centesimi nel cronometraggio elettrico); Jackson recuperò dal suolo il malcaduto e arrivò al traguardo, ancora quinta in 46"6, roba da finire in 45 e pochi senza l'inciampo. Le nostre quattro signorine con i pantaloni "videro" la finale lì vicino, ma con ci entrarono per uno scarto di 84 centesimi dalle britanniche, che poi, nella finale, indossarono il bronzo.
Marjorie Jackson (classe 1931) ha avuto poi una lunga carriera politica di alto profilo nel suo Paese: nel 2001 fu nominata Governatore della South Australia, che ha lo statuto di Stato Federato. Lasciò volontariamente l'incarico nel 2007. Un ricordo personale di chi scrive queste note: la signora Jackson-Nelson fu una degli otto atleti che ressero la bandiera olimpica nella sfilata alla cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici Sydeny 2000.
E adesso, finito lo sfoggio non richiesto di compitino olimpico, spazio ai ricordi, quelli autentici, quelli vissuti, dove i numeretti contano fino ad un certo punto. Giuseppina i suoi li ha raccontati così al nostro amico Guido, che ancora una volta ringraziamo per questo contributo al nostro sito.
Le due foto che corredano questa storia sono riprese dal Rapporto Ufficiale dei Giochi Olimpici Helsinki 1952 (il volume appartiene alla Collezione Ottavio Castellini). In quella in alto, da sinistra, le australiane Shirley Strickland de la Hunty (oro sugli 80 metri ostacoli), Windsome Cripps e Marjorie Jackson. Nell'altra, le quattro americane: sempre da sinistra, Catherine Hardy, Barbara Jones, Mae Faggs e Janet Morreau. Soffermatevi su questo nome: Barbara Jones, di Chicago: fu, e dovrebbe essere tuttora, la più giovane medaglia d'oro in atletica nella storia dei Giochi: aveva 15 anni e 123 giorni quel 27 luglio 1952. Non contenta, rivinse lo stesso metallo otto anni dopo a Roma. Fu lei che consegnò il bastoncino alla regale Wilma Rudolph per l'indimenticabile rettilineo finale.
Nessuno mi credeva
“La gente era stupita. Intendo dire che alle mie prime gare arrivavo sempre davanti e gli allenatori non se l’aspettavano. Succedeva sulla pista dietro a quello che allora era il Comunale, insomma all’Antistadio, sotto la Torre Maratona. Per esempio: vado sui blocchi contro Maria Musso, che era una di quelle proprio forti. Non mi conosceva nessuno, e la batto sul filo con 12”4. Era un tempone. Dopo qualche giorno, provo i 200 ma nella categoria chiamata “Terza serie”, perché in quell’epoca c’erano fasce differenti in base ai risultati già ottenuti. E io ero una debuttante a tutti gli effetti, quindi tra le più scarse. Insomma, alla fine della curva l’allenatore mi strilla “Ferma! Ferma!”. Traduco: stavo andando troppo veloce e la paura era di vedermi promuovere in seconda o in prima serie, dove probabilmente avrei preso meno punti per la classifica. Il problema, che poi era tutto della federazione, è che ai miei tempi non credevano. Il concetto era qualcosa tipo: chissà cosa hanno combinato i giudici lassù a Torino. Per capire se davvero valevo qualcosa mi chiamarono in un raduno a Milano e poi mi fecero gareggiare a Roma. Insomma, alla fine ero la più veloce di tutti e quindi a diciotto anni e con pochi mesi di allenamenti alle spalle fui messa nella squadra olimpica per Helsinki. L’unica piccola complicazione era la 4x100 perché i cambi proprio non sapevo ancora bene cosa fossero. Li provammo qualche volta ma per non correre pericoli mi affidarono la prima frazione”.
Helsinki 1952: la manona di Consolini
“Ora posso dirlo: giovane com’ero, non avevo capito cosa fosse un’Olimpiade. Le mie vittorie in Italia mi avevano fatto pensare che anche fuori la situazione fosse più o meno quella, invece era ben diversa. Ma prima di scoprirlo mi godevo la trasferta. La prima parte era in treno e dato che ero una matricola avevo il compito di portare da bere ai campioni e ai più anziani. La cosa mi era piaciuta moltissimo perché in quel modo avevo conosciuto tutti. L’emozione, direi la felicità, di conoscere Consolini e di stringere la sua manona fu grandissima. Era il campionissimo della nostra squadra, aveva vinto l’oro quattro anni prima a Londra ed era l’idolo, la grande stella. Era una situazione strana: gli portavano addirittura i fiori e lo celebravano, ma a me sembrava una persona così semplice, così umile. Mi era piaciuto moltissimo proprio per questa sua vicinanza. E poi un altro grande come Dordoni, Pino era un chiacchierone estroverso. Chi mi era simpaticissimo era Profeti, il pesista: una vera sagoma”.
“L’ultimo tratto, per raggiungere la Finlandia, fu in nave e lì cominciai a intuire qualcosa perché mi sembrava di essere piccola piccola. Ma non come a Helsinki, mi riferisco all’Olimpiade vera e propria, dove non conoscevo l’ambiente e non avevo idea di cosa fosse uno stadio pieno di gente e tante avversarie da tutto il mondo. Mi sentivo nessuno. Mi sono praticamente persa e infatti feci una buona batteria ma poi fui eliminata. E non ricordo nemmeno cosa venne fuori dalla staffetta (terza in batteria ed eliminata con 47”4 insieme a Vittoria Cesarini, Milena Greppi e Liliana Tagliaferri, ndr)”. Mi è più chiara la memoria di quel che fecero Pino Dordoni, Harrison Dillard che poi ho conosciuto personalmente, e soprattutto Zatopek con la sua tripletta, loro sì. Ma una cosa devo dirla: come donna, non ho mai subìto discriminazioni né critiche e nemmeno situazioni imbarazzanti. L’unico momento un po’ particolare è quando andavamo in giro in divisa, le prime volte, e notavamo gli sguardi perplessi della gente comune. Ma soltanto perché avevamo i pantaloni e in quell’epoca era strano che una donna non avesse la gonna. E noi ci divertivamo quando notavamo quel tipo di reazione. Certo, il modo di pensare era quello della metà del Novecento e mia madre - si chiamava Teresa ma tutti la chiamavano Bianca - pretese di accompagnarmi personalmente al primo raduno per vedere, per rendersi conto dell’ambiente che avrei frequentato”.