Giovanni Arpino (1927 - 1987), scrittore e giornalista, vinse il Premio Strega 1964 e il "Campiello" 1972. Autore di sedici romanzi, centinaia di racconti, libri per ragazzi, sceneggiature per cinema e tivvù., qualcosa anche per il teatro. A chi piace leggere di sport, suggeriamo il romanzo "Azzurro tenebra", edito da Einaudi nel 1977: una ironica, graffiante istantanea del mondo del calcio visto dietro le quinte, ma dentro gli spogliatoi: in quelle pagine il calcio è davvero nudo. Racconta le avvilenti vicende della Nazionale italiana ai Mondiali in Germania nel 1974, eliminata al primo turno (Haiti, Argentina, Polonia, e a casa).
Ma non di calcio, certo, vogliamo parlarvi in questo spazio, ma di atletica. E di un filo che legò Giovanni Arpino al nostro sport e alla rivista federale in occasione dei Giochi della XXI Olimpiade Montréal 1976. Riproduciamo, a seguire, un elzeviro - ci sembra il termine più azzeccato - dello scrittore e giornalista, a quell'epoca a "La Stampa" di Torino, pubblicato nel numero 9, settembre 1976, pagine 9 e 10.
Nei prossimi giorni pubblicheremo un inedito ricordo di un nostro socio fondatore sulla "nascita" di questo testo.
Nel frattempo se qualcuno volesse leggere un ricordo di Arpino, scritto in punta di penna, in occasione del novantesimo anniversario della nascita può andare su questo indirizzo https://www.huffingtonpost.it/darwin-pastorin/celebriamo-giovanni-arpino-luomo-che-ha-trasformato-il-pallone-in-letteratura_b_14239612.html
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Cos'è l'atletica, se non un linguaggio? Fu Pasolini, molto avventurosamente, a vedere un "linguaggio" nel football: ma i suoi intuiti critici sembrano un po' forzati, vanno dalla discordia che il pallone suscita nei bar ad un mistilinguismo spettacolare e atletico che non sempre trova riscontro nei fatti. A mio parere il football ha la forza e la rozza autorità di un dialetto, ma il linguaggio, isolato, puro, sonoro, e con tutti i verbi a posto, senza necessità di eufemismi beceri, ce lo dona soltanto l'atletica.
All'indomani di una Olimpiade, quando si aprono i bilanci, si conteggiano - ed è un male, ma anche uno stimolo statistico, quindi un bene - le diverse medaglie, mi sembra che ancorarsi a questo concetto basilare dell'atletica come linguaggio sia indispensabile.
Nell'antologia dei gesti, delle prestazioni, del furore vincente, dello spasimo agonistico che l'Olimpiade di Montréal ha offerto, ciascuno può ricavare un suo nutrimento: parlando della magnifica Simeoni o di Grippo, naturalmente per risalire a quei protagonisti che hanno inciso profondamente nei Giochi, si tratti di Juantorena o Viren o Crawford o Nemeth. Ma qui il linguaggio si fa storicamente "datato", si fortifica nella memoria, lascia l'emozione all'immagine, rivedibile sempre in fotogramma.
L'atletica brucia nel momento in cui agisce, subito dopo è un testo da studiare a tavolino. Essa è scienza esatta, dove non puoi sgarrare con i "beniaminismi" così cari al critico passionale. Una curca, una progressione, una partenza, un accumulo di secondi, una stessa contrattura od inciampo improvviso - quindi il caso - diventano elementi di un problema che cancella le sue risposte incognite, e si fa esatto nella soluzione, tesa alla logica.
Naturalmente, mentre la si guarda, l'atletica non strozza il grido nella gola di chi la segue: il critico si fa chirurgo, ma dopo, così come alla vigilia era matematico. Nel furoreggiare del suo "durante", l'atletica offre a chicchessia emozioni, cardiopalmi, nervosismi e quasi un senso di angoscia. Ecco il giornalista che vorrebbe soffiare nei polpacci di un quattrocentista, per aiutarlo, anche se sa benissimo che i "tempi" gli chiudono ogni gloriosa avventura. Ecco lo statistico che sa in ogni caso rispondere ad un urgente interrogativo. Che ha fatto il Caio nel settembre dell'anno tale nello stadio X? Subito lo statistico sa rispondere, minuti e secondi e centesimi esatti, la data, magari la temperatura e la pressione atmosferica.
Qui, come possiamo vedere, l'atletica diventa una malattia, una sorta di "virus" che circola per arterie e vene. Non inquinante, è logico, non mortale, ma senz'altro inguaribile. In una tribuna stampa, mentre gli atleti, laggiù, siedono tra i loro stracci colorati, o saltellano prima di una gara, o si ripiegano su se stessi, dopo il traguardo, per ripigliare fiato, in quella tribuna stampa, dunque, accadono tiri incrociati di discorsi che farebbero felice un filologo: è il massimo momento espressivo del linguaggio, che si traferisce da piste e pedane in sede critica. Ogni tre sillabe, una cifra. Ogni tre cifre, un aggettivo: e quando gli aggettivi sono così scarsi, vuol dire che il significato vive robusto, che non esiste l'alea dell'opinabilità. Ancorato ad un cronometro, ad un metro, il linguaggio atletico non consente facile "epos". La sua implacabile certezza registrante, la sua realtà scartano immediatamente lo svolazzo. Il linguaggio si commenta all'interno di sé, chi tenta di operar contrabbando di elogi o invettive scade subito a cronista di mercato, quindi a nemico. Rischia l'espulsione dalla tribù, perché il mancato rispetto del linguaggio è già tradimento, confusione, trappola, tentativo di mistificare e stravolgere la realtà.
Sto rendendomi conto di redigere un articolo impossibile: non si può infatti "scrivere sullo scrivere" e "scrivere su chi scrive" in atletica. Si rischia di precipitare in un mercato di parole abusive, e contibuire ad una corruzione. Ogni vangelo tenta, di per sé, d' escludere il commento. Preferisce, semmai, un fratello apocrifo.
Ma una cosa mi resta da dire: durante quest'ultima Olimpiade, molti illustrissimi politologi dei Giochi hanno discusso intorno all'"anima" che gli è dentro. Un' Olimpiade moderna - al di là di sforzi immensi e forse sproporzionati, montagne di dollari, eventi e secessioni politiche, diatribe sui significati marginali o sulle finalità - possiede ancora questa "anima" , si sono domandati studiosi di ogni parte e tendenza, persino qualche importante gerarca della piramide che gestisce i Giochi?
Si è giunti a dire, quasi in uno sfrozo inventivo per superare il groviglio delle idee: l'Olimpiade ebbe pur sempre un' anima, o religiosa o civile e democratica, o addirittura condannata perchè pagana (dal misticismo cristiano) e poi ricresciuta, seppur in laboratorio, per riportare in onore l'animale uomo dei tempi moderni; l'ultima sua "anima" nasce dalla religione del progresso, che condiziona, forse corrode, ma è costante irreversibile dell'esistenza contemporanea.
Sono discorsi crudi, talora forse indigeribili, che non evitano di sbandare nel generico. A questi discorsi l'atletica, che è figlia, regina, madre ed erede del gesto olimpico, ha risposto con suo "fare". Anche stavola il linguaggio ha preferito essere se stesso, non dipendere da logomachie altrui. Precipitatasi sull'erba e sul tartan, l'atletica ha voluto rendere omaggio soltanto alla propria consistenza, ripetendo le antiche sfide al "limite umano", riproponendosi di fronte ai rischi di sempre. La sua solitaria bellezza non ha mai chiesto altro.