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di Giorgio Reineri
 
Favolosi quegli anni Settanta. Essi ci sono tornati alla mente per via dell’incombente genetliaco di Marcello Fiasconaro che, proprio nel luglio di questo 2019, celebra il suo settantesimo anno di vita. Lo celebra in Sud Africa, a Città del Capo, dove nacque nell’ormai distante 1949, figlio di Gregorio e Mabel Marie Brabant, e dove ha fatto ritorno, da Johannesburg, per trascorrervi il tempo del riposo cullato dalle onde di due oceani. In verità, gli anni Settanta, preannunciati dalla bombe di piazza Fontana (Milano,1969), furono per la vita socio-politica italiana pieni di trambusto: scoppi si susseguirono per la penisola, così come ammazzamenti e rapimenti di politici, sindacalisti, magistrati, dirigenti d’imprese, sino a quell’autentico colpo di stato che fu la strage di via Fani (Roma, 1978), seguita dal crudele assassinio di Aldo Moro. Ma fra tante angosce e sofferenze noi della parrocchia atletica trovavamo rifugio in questo sport che, malgrado i guai del paese, viveva una stagione di rifioritura e speranze. I protagonisti? Franco Arese, Sara Simeoni, Pietro Mennea, Paola Pigni (seguita da una giovanissima Gabriella Dorio) e, improvvisamente sbucato dal Sud Africa della segregazione razziale, Marcello Fiasconaro.
Imprese e vicissitudini del corridore Fiasconaro sono note, specialmente a chi per diletto (o mestiere) scrive di storia atletica. Andarle a ripercorrere sarebbe, dunque, un esercizio superfluo: chi ha dimenticato, fra i quattro lettori di queste righe, la notte del 27 giugno 1973 all’Arena di Milano? Fu record del mondo degli 800 (1’43’’7) e, 46 anni piu’ tardi, continua a rimanere record italiano, avvicinato (da Donato Sabia e Andrea Longo) ma mai battuto. Certo, quello fu il punto alto della carriera di Marcello, più alto della medaglia d’argento agli Europei di Helsinki ‘71 sui 400, con un primato nazionale (45’’5) che, pure esso, durò una gran manciata di anni. Ma l’importanza di Fiasconaro per lo sport nazionale non si esaurisce nel racconto dei suoi trionfi e delle sconfitte (come quella patita, sugli 800, da Luciano Susanj agli Europei di Roma 1974), bensi’ sta nella sua umanità, nella capacità di accettare gioie e sofferenze mai dimenticando che, entrambe, eran passaggi, inevitabili, del gran gioco dello sport.
Marcello era arrivato a noi per vie un po’ misteriose, attraverso un tam-tam di notizie e risultati raccolti consultando i resoconti di gare sudafricane. A quel tempo, come s’è accennato, il Sud Africa applicava una feroce politica razzista, escludendo tutta la popolazione di colore (e meticcia) dalla vita sociale, politica, economica, sportiva della tribù bianca, principalmente britannica e d’antica origine olandese, ed in conseguenza di questo “apartheid” era stato escluso da tutte (o quasi) le federazioni sportive internazionali e dal C.I.O. (Comitato Internazionale Olimpico). Ma in Sud Africa gareggiare si continuava, e così il nome di Fiasconaro aveva preso a circolare, tra gli appassionati, come quello di un ragazzo di talento. Se la memoria non ci inganna, fu Carmelo Rado, discobolo di valore ed ex atleta dell’Unione Giovane Biella, emigrato laggiù con un buon posto di lavoro, a segnalare in Italia la comparsa di tanto prodigio. Rapidamente, come era all’epoca consuetudine, la Fidal si mosse (Nebiolo presidente e Barra segretario non eran gente che s’addormentasse sulle pratiche) e così Fiasconaro approdò un bel dì a Genova, con tanto d’italico passaporto per via del padre, italianissimo maestro di musica fatto prigioniero in Africa dagli inglesi, portato nei campi di concentramento sudafricani e lì rimasto, anche a guerra mondiale terminata.
Il primo incontro con Marcello avvenne proprio in occasione del campionato italiano indoor, che allora si teneva al Palafiera di Genova. Le tribune erano gremite, come se stessero per incontrarsi Sampdoria e Genoa. Ma nel gran clamore del pubblico, la risata di Fiasconaro vincitore del suo primo titolo nazionale ebbe il sopravvento. Era una risata schietta, che si dipanava e cresceva d’intensità a mano che altre s’accodavano; una risata che coinvolgeva e distribuiva allegria, che cancellava ogni ombra o risentimento; una risata che comunicava voglia di vivere, proprio come il direttore d’orchestra comunica ai suoi musicanti la voglia di musica.
Quante volte abbiamo udita quella risata, nei troppo brevi anni di permanenza di Marcello in Italia. L’udimmo a Helsinki, dove chiunque altro non fosse stato March avrebbe imprecato, non a David Jenkins, ma a chi gli aveva detto di badare soltanto al polacco Badenski: cosicchè, quando sbucò in rettilineo avendo Badenski alle spalle, s’avvide dell’inglese avanti di metri e produsse lo sforzo che lo portò a pareggiarlo, ma non superarlo, sulla linea del traguardo.
Oh, sì, Marcello aveva questo talento: di affogare nel riso che gli gorgogliava su per la gola i momenti di stanchezza. O di dolore. Di dolore fisico, davvero, perchè Fiasconaro era stato costruito con l’acciaio, a parte piedi e tendini che eran, sì elastici, ma di materiale facilmente logorabile. E gli allenamenti, sotto la guida di un britannico prima e di Tito Morale poi – allenamenti violenti, sennò non si sarebbe potuto correre il record del mondo – avevano rapidamente sgretolato le ruote di quella straordinaria macchina da corsa. Si cercarono rimedi, e si consultarono i meglio ortopedici del tempo: il dottor Ruben Dario Oliva, ad esempio, cercò invano di alleviare l’infiammazione a quell’estremità sofferenti. E Marcello, tra una smorfia e una risata, accettava di sottoporsi a prove di efficienza: allunghi a ripetizioni, non importa dove, davanti a Primo Nebiolo e alla sua coorte, che lo sospingevano a tentare e ritentare, nel caso il miracolo fosse avvenuto.
Grande Marcello, che seppe ridere anche quel pomeriggio di prima estate, ad Oslo, quando uno starter troppo occhiuto lo esluse dalla gara degli 800 di Coppa Europa, e ne venne fuori un parapiglia che finì sulla prima pagine del londinese Times, con Bruno Cacchi, allora Commissario Tecnico, impugnante la sua minacciosa pipa nei confronti del giudice-arbitro. Era accaduto che March avesse mosso per due volte – doppia partenza falsa – il piede destro, barcollando e scavallando la linea di partenza, prima dello sparo. Non era probabilmente mai successo, e non sarebbe mai più accaduto, che un ottocentista - primatista del mondo! - venisse squalificato per tale sciocchezza. Ma capitò, e proprio al più innocente dei campioni: Marcello Fiasconaro. Il quale la prese come doveva prenderla uno che era fenomeno nella corsa ma, anche, nel saper leggere, in ogni vicenda della vita, l’aspetto umoristico: con una gran risata, e una stretta di mano ai suoi avversari, l’inglese Carter e il sovietio Arzhanov (Adriaan Paulen, presidente all’apoca della Federazione Europea e, tre anni dopo, della Iaaf, propose, a seguito dell’episodio, che agli ottecentisti che lo richiedessero fosse data la possibilità di partire dai blocchi, e non in piedi).
Ecco, sono (anche) questi minuscoli ricordi d’anta’n che impreziosiscono quei favolosi anni Settanta. Dove le tensioni della quotidianità si stemperavano  – almeno in quella nicchia felice che era l’atletica del tempo – in gran risate: le stesse che ci pare di sentire risuonare, laggiù a Città del Capo, dove Marcello Fiasconaro s’appresta a spegnere, con solenne e profondo sbuffo, le sue settante candeline.
 
Nelle quattro fotografie: in alto a sinistra, copertina della rivista «Atletica» del 1971 autografata da Marcello; a destra, l'arrivo della gara allo Stadio dei Pini di Viareggio dove Fiasconaro corse in 45"5, nuovo primato italiano; in basso a sinistra, il famoso arrivo della finale dei 400 ai Campionati d'Europa a Helsinki; a destra, il prof. Carlo Vittori controlla March dopo un allenamento.