Cinquantacinque anni fa, il 20 dicembre 1969, concluse la sua vita terrena Adolfo Consolini, l'atleta che rimane un simbolo insuperato nell'atletica italiana, per coloro che sono ancora dotati di memoria e di cultura, in un mondo popolato, purtroppo, da una maggioranza di individui scarsamente dotati sia della prima che della seconda qualità. In anni ormai dimenticati, avvolti nella foschia che sale dal lago di Garda o che scende dal vicino Monte Baldo, era consuetudine per un gruppo di atleti di solida biografia sportiva personale, soprattutto olimpica, ritrovarsi al cimitero di Costermano, e sostare attorno alla tomba del discobolo che colà nacque, in una frazione del borgo principale, tomba monumento realizzato dallo scultore reatino Dino Morsani. Erano i tempi di Carlo Monti, Pino Dordoni, Edoardo Mangiarotti, Fiorenzo Magni, e altri. Nonostante in alcune pubblicazioni di quelle che i fanatici dell'informatica definiscono on line, si legga che "ogni anno bla bla bla bla...", questo sentito pellegrinaggio a Costermano non viene più percorso da tempo. Alcuni di noi dell'Archivio storico dell'atletica italiana "Bruno Bonomelli" si sono proposti di ovviare alla mancanza di ricordo in anni recenti. E in quelle occasioni hanno anche dovuto constatare la poca cura del monumento o, perfino, l' inqualificabile gesto di qualcuno che aveva legato con un filo di ferro una foto plastificata attorno alla testa del grande campione. Inqualificabile, diciamo, solo per non usare altri termini che pur ci mette a disposizione il vocabolario della lingua italiana. Negli ultimi sette anni, in cinque ricorrenze (anche quella del centenario della nascita nel gennaio 2017) alcuni di noi si sono ritrovati sul quella collinetta in rispettoso raccoglimento, deponendo una corona di alloro e ripulendo il sepolcro in maniera acconcia.
Oggi vogliamo ricordare Adolfo Consolini da questo nostro spazio, completamento rinnovato dopo il paziente lavoro del nostro socio Gino Bassi, ripristinando, proprio in questa occasione, un dialogo con chi ha ancora a cuore la narrazione storica del nostro sport, ammesso che ne resti qualcuno. Affidiamo il ricordo a uno scritto di un grande giornalista, Giulio Signori, una delle "penne" più brillanti che contribuì, dalle colonne del quotidiano "Il Giorno", a far amare l'atletica. Oltre ad essere un grande galantuomo e uno scrittore che dovrebbe far scuola agli sgrammaticati scolaretti di oggi. Questo scritto fu pubblicato sulla rivista della Federazione italiana nel 1989 in occasione dei vent'anni della morte di Consolini. Abbiamo deciso di usare lo stesso titolo di allora: "Continua a volare il disco di Consolini". E ci inchiniamo alla sua memoria.
Questa bella sequenza rende omaggio alla plasticità dei gesti di Adolfo Consolini
Scrisse Giulio Signori:
Se non fosse già stato sfruttato, «Via col vento» sarebbe il titolo giusto per il grande romanzo i cui personaggi sono anche più numerosi e non meno affascinanti di quelli del famoso polpettone filosudista. Un romanzo cominciato almeno ventisette secoli fa, se è vero che il primo alloro i discoboli se lo sono conteso nella diciottesima Olimpiade. Già, perchè sono loro, i lanciatori di quell'attrezzo che si libra nell'aria e talora sfarfalla capriccioso come un beccaccino pronto alla picchiata i protagonisti di questo romanzo, la cui trama è densa di colpi di scena e il cui svolgersi segue l'evoluzione perfino biologica di quello straordinario animale che è l'uomo. Ogni volta che viene lanciato un disco, l'uomo compie un piccolo capolavoro di ingegneria poichè quello strano oggetto biconvesso è soggetto alle stesse leggi del volo che permettono ad un aereo di scivolare sull'aria, ridendosela della legge di gravità, e ogni volta ci si chiede con una buona dose di stupore come ciò possa accadere. Tra i personaggi di questo grande romanzo del quale non si intravvede la conclusione, ci sono anche gli italiani, come no, ma di costoro uno solo può aspirare al ruolo di protagonista assoluto e il suo nome tutti lo conoscono: Adolfo Consolini. Ma prima di farlo entrare in scena sarà meglio fare un piccolo riassunto delle puntate precedenti.
Come sia avvenuto che i greci, sempre loro!, abbiano preso a lanciare questo oggetto privo di connotazioni utilitaristiche è molto misterioso. Se si seguono criteri utilitaristici, dei quali noi personalmente diffidiamo, per individuare le origini di una specialità sportiva, non c'è dubbio che gettare il peso sia stata, come il giavellotto, un'attività paramilitare a scopo offensivo, e non è nemmeno da discutere che un sasso avvinto ad una fronda molto flessibile usato per colpire, e magari abbattere, un volatile sia stato la prefigurazione di quello che noi oggi chiamiamo martello. Ma il disco? Un oggetto probabilmente di puro divertimento a conferma della teoria di Huizinga che lo sport è l'aspetto agonistico e competitivo del gioco e che la civiltà deve essere intesa come capacità di rispettare le regole di questo gioco, reprimendo il selvaggio che è in noi. Quel drittone di Ulisse, a sentire quell'incontenibile pettegolo che è Omero sarebbe stato il più bravo tra gli ufficiali dell'esercito grego che assediava Troia, in quel gioco, a conferma che far volare il disco non era (anzi, non è) soltanto un esercizio di forza ma che bisognava metterci anche un pizzico d'ingegno per indovinare l'inclinazione giusta da impremergli, a seconda dei capricci del vento.
Cosa lanciassero i greci è piuttosto misterioso: il disco di bronzo che si ammira nel museo di Olimpia pesa qualcosa come sei chili, quello del museo di Atene è sui tre chili abbondanti, un altro conservato a Berlino è più leggero. Ma non ha importanza, tutto questo: non esistendo allora il concetto di record, non solo per difficoltà di misurazione ma proprio perchè il migliore fra tutti era colui che batteva gli altri, era essenziale che il disco fosse lo stesso per tutti nella stessa gara.
Bob Garrett era della stessa idea. Avendo visto la riproduzione del Discobolo di Mirone immobilizzato nel bronzo nella fase di avvio del lancio, si era fatto fabbricare un disco di quelle dimensioni e con quello si divertiva nel suo giardino di ricco figlio di banchiere a Baltimora, ad imitare quel famoso campione. Ma trovava quel disco straordinariamente pesante e l'esercizio macchinoso. Bob Garrett era andato a studiare a Princeton, l'università che aveva dato alla rappresentanza Usa il nerbo per quella curiosa manifestazione sportiva che uno sconosciuto francese aveva ribattezzato Olimpiade. Bob Garrett doveva essere un tipo straordinario. Mentre girava sull'erba dello stadio olimpici di Atene aveva inciampato in un disco, lo aveva raccolto e, sparandolo via, si era reso conto che era molto diverso da quello che lui aveva immaginato, e allora perchè, oltre a quella del peso, non iscriversi anche alla gara del disco? I greci stavano già preparandosi a portare in trionfo un loro connazionale dal nome impronunciabile (Panagiotis Paraskevopoulos, pensate!), quando Bob Garrett, al terzo e ultimo lancio, azzeccava venti centimetri di più. Ma lo straordinario di Garrett è che il giorno dopo vinceva il peso e alle due medaglie d'oro ne aggiungeva una d'argento nel lungo e un'altra in coabitazione nell'alto.
Di tipi straordinari è pieno, questo romanzone del disco. Jules Noël era un francese di grosso formato, un metro e 90, con delle mani enormi, che aveva scelto l'atletica per eccellere, preferendola alla scherma dove la concorrenza, in Francia a quell'epoca, era troppo agguerrita. Noël lanciava disco e peso con la stessa disinvoltura e ai Giochi di Los Angeles era tra i favoriti. Dicono le cronache come di quando in quando, durante la gara olimpica, si vedessero lui e Paul Winter, l'altro francese, avvicinarsi al tunnel che portava alla toilette con frequenza sospetta. Andavano a ritemprarsi con una boccata di champagne che i francesi, a dispetto del proibizionismo ancora in vigore, avevano avuto il permesso di introdurre negli Stati Uniti. Rientrando da una delle sue evasioni, Noël aveva azzeccato un lancio che era andato nettamente oltre la bandierina che segnava il limite raggiunto da John Anderson, che guidava la gara. Ma i giudici, distratti da Bill Miller che stava compiendo il salto che doveva dargli la vittoria nell'asta, non erano stati in grado di individuare il punto in cui il disco di Noël aveva toccato terra: a titolo di risarcimento, gli era stato concesso un lancio supplementare, ma ormai il delitto era stato consumato.
Jules Noël doveva morire da eroe sulla Somme ma non poteva bastare il suo valore e quello di pochi altri a sbarrare la strada di Parigi alla Wehrmacht. Era il 10 maggio del 1940 e un anno più tardi, alle 11,24 del 26 ottobre 1941, entrava nella storia dell'atletica Adolfo Consolini. Era una giornata piuttosto fredda e umida, come è giusto che sia a Milano a quell'epoca dell'anno, e il Campo Giuriati, piccolo stadio-laboratorio allora ai magini della città, non offriva nemmeno un locale dove ci si potesse cambiare al caldo, e Consolini aveva dovuto scaldarsi partecipando ad una gara di giavellotto (per la storia terzo con 43,70). Con il disco aveva mancato i primi due lanci della gara e per qualificarsi alla finale aveva tirato da fermo, con grande disperazione di Antonio Cesari, un romagnolo irascibile che sfogava le sue rabbie interne azzannando un toscano via l'altro. Anche se la storia ufficiale lo ignora, Cesari aveva insegnato a Consolini a tener il disco in mano, così come aveva avviato Teseo Taddia al lancio del martello, e dopo che il grande Adolfo aveva sprecato altri due lanci, l'ultimo con un nullo vicino ai 55 metri, gli aveva fatto modificare la posizione di partenza. Ne venne fuori un lancio che, confermando la tredizionale impreparazione degli italiani di fronte ai grandi eventi della storia, nessuno era stato in grado di misurare per mancanza di una fettuccia tanto lunga e dovette passare quasi un'ora prima che dal Politecnico a due passi dal Giuriati, arrivasse una cordella metallica grazie alla quale si stabilì che il disco aveva toccato terra a metri 53,34 dalla pedana. Non tutti e non subito avevano capito che si trattava del record mondiale e soltanto il 15 novembre i verbali del Giuriati erano stati spediti alla Federazione internazionale per l'omologazione.
Quel primato del mondo ripagava Adolfo Consolini di quell'Olimpiade che la follia degli uomini aveva cancellato e che lui avrebbe sicuramente vinto, così come quella del 1944. C'era uno soltanto al mondo che lo valeva, in quegli anni tragici, ed era dalla sua parte: Giuseppe Tosi. Questa straordinaria coppia giustificava l'esistenza di una scuola italiana del disco. In realtà, Boyd Comstock, l'americano che aveva dato un indirizzo a tutta l'atletica italiano, prima di lui molto artigianale per non dire paesana, aveva adattato a Consolini la sua idea che l'atletica fosse soprattutto velocità. Aveva già trasformato un longilineo di scarsa muscolatura in un discobolo di valore olimpico: il terzo posto a Berlino di Giorgio Oberweger era stata una clamorosa dimostrazione di come si poteva trasformare un discreto ostacolista in un discobolo, cosa del tutto insospettabile, sfruttandone la velocità di esecuzione e l'assoluto controllo del corpo, essenziale, in tutti gli atleti che abbiano l'abitudine ad affrontare le barriere, alte o basse che siano.
Lungo di braccia, basso di carrello (tutto è relativo, si capisce) Consolini era il tipo più adatto a quell'esercizio come lo intendeva Comstock che gli parlava attraverso Oberweger che gli faceva da interprete. Sottoalimentato durante i terribili anni in cui la guerra infieriva, Consolini aveva recuperato cinque chili quando il 14 aprile 1946 si ripresentava sulla pedana del Giuriati, e questa volta c'era tutto quanto serviva per misurare i due nuovi record del mondo: 53,69 alla 15,20 (mai presentato all'omologazione) e 54,23 dieci minuti più tardi.
Consolini era una specie di katiuscia, sparava dischi con la regolarità di un artigliere. Era maggio quando partiva per la Scandinavia in compagnia di un giovane e promettente giornalista, Gianni Brera, che gli faceva da interprete, manager e anche un po' di allenatore. I particolari di quella tournée per molti versi straordinaria, sono ancora da raccontare. La storia ufficiale parla di undici riunioni alle quali Consolini avrebbe partecipato, ma in aggiunta a quelle c'erano state esibizioni estemporanee come quella riservata ai pescatori di un villaggio della costa sud. Brera giura di aver contato sessanta lunghi passi per andare dal punto del lancio a quello dell'impatto nella sabbia, e agli spettaori entusiasti poco importava che in quei giorni in un posto chiamato Minneapolis tale Bob Fitch avesse sfiorato i 55 metri e portarono in trionfo sulle loro spalle quel gigante dalla voce da bambina.
In Norvegia, molto toccata dal collaborazionismo di Quisling e dei suoi seguaci con i tedeschi, non avevano voluto Consolini che che consideravano un pericoloso ex nemico. Ma le pressioni degli svedesi furono tali che ai primi campionati europei del dopoguerra Consolini e Tosi erano regolarmente in pedana per conquistare la prima accoppiata della loro straordinaria epopea, culminata due anni dopo nell'Olimpiade di Londra. L'anno prima di Londra il provincialismo che regnava nella Fidal aveva spinto i dirigenti a declinare l'invito della American Amateur Union di ospitare per un certo periodo Adolfo Consolini: chissà, forse il confronto con l'emergente Fortune Gordien avrebbe portato Consolini vicino ai 60 metri che aveva nelle braccia, come aveva dimostrato l'anno dopo i Giochi Olimpici riprendendosi il record del mondo: 55,33, questa volta all'Arena il giorno in cui i milanesi avevano fatto conoscenza con Emil Zatopek. Ma è doveroso aggiungere che, nel frattempo, Giuseppe Tosi era riuscito a conquistare il record europeo con 54,78 e 54,80, e sarebbe stato lui il solo europeo a battere Consolini dopo la sconfitta subita per mano di Grigalka, nel lontano settembre 1941. Tosi era stato splendido finendo secondo agli europei di Bruxelles e di Berna ma, benché fosse di un solo anno più vecchio, non aveva la straordinaria freschezza di Consolini ed aveva chiuso una carriera i cui risultati, pur splendidi, erano stati inferiori alle sue possibilità e alla storia dell'atletica passerà come il fedele scudiero di un campionissimo.
Che aveva mancato forse l'ultima occasione della sua vita ai Giochi di Helsinki: il vento abbassava le traiettorie del suo disco, mentre esaltava l'americano di turno, il possente Sam Iness. Ma non era ancora finita. Era il dicembre del 1955 quando i suoi tifosi di Bellinzona gli avevano organizzato una riunione soltanto per poterlo applaudire. Aveva un solo avversario, tale Bernhard, anche perchè la gara, svolgendosi nell'intervallo della partira Bellinzona-Locarno, doveva per forza essere breve. Erano le 14 e 4 minuti e già si era al quarto lancio e il disco partito dalle mani di Adolfo Consolini ricadeva a 56,98, record europeo, quarta prestazione all time del pianeta Terra. Meno di un mese dopo diventava padre e per la gioia esplodeva un 56,85 che doveva restare la seconda misura mondiale di quell'anno olimpico.
A Melbourene i segni del destino erano contro di lui: si lanciava per la prima volta da una pedana in cemento che richiedeva un certo periodo di adattamento, e una piccola ferita gli aveva provocato una infezione all'indice della mano destra, con qualche difficoltà a trattenere il disco fino al momento di stendere le falangi per lasciare che volasse nel vento. Ma nel Grande Romanzo era entrato un altro colossale personaggio: Al Oerter. Che secondo molti è stato, risultati alla mano, il più grande di tutti quei ragazzoni che hanno sfidato il vento tagliandolo con le traiettorie dei loro missili. Ma senza quella maledetta guerra di mezzo a togliergli due Olimpiadi, il nostro grande Adolfo non sarebbe riuscito almeno ad eguagliarlo, quel mostro?