Quarta, e ultima parte, della esauriente storia-intervista realizzata da Guido Alessandrini sulla bella carriera di Giuseppina Leone, velocista torinese, presente a tre edizioni dei Giochi Olimpici, medaglia di bronzo sui 100 metri nella indimenticabile edizione di Roma 1960. Stavolta ci asteniamo dall'aggiungrere note di presentazione, in quanto il racconto della signora Giuseppina, da solo, vale più di tante parole, annotazioni agonistiche, numeretti dei risultati. Non ci resta che ringraziare, ancora, l'amico Guido Alessandrini, con il quale alcuni di noi dell'ASAI hanno condiviso tante belle esperienze sulle grandi manifestazioni internazionali per una trentina d'anni.
Le foto. In quella a sinistra, Giuseppina Leone riceve la sua medaglia dalle mani del presidente del Comitato Olimpico Internazionale, lo statunitense Avery Brundage. Svetta la lunga figura di Wilma Rudolph, indiscussa regina della velocità sulla pista dello Stadio Olimpico. A destra, l'arrivo dei 100 metri per le atlete dal secondo al quarto posto, Rudolph è davanti, solitaria. A iniziare da destra, l'inglese Hyman (aveva poco più di diciannove anni), Giuseppina Leone, e la sovietica Itkina, che in tre edizioni dei Giochi fu sempre finalista ma non vinse mai una medaglia; fu anche una delle prime atlete di livello mondiale sulla distanza dei 400 metri, appena introdotta nel programma

Roma 1960: atmosfera torrida
“Il primo impatto con i Giochi di Roma fu una sensazione: caldo. Faceva un caldo pazzesco, e io soffro tantissimo il caldo. Il villaggio degli atleti era appena stato costruito e non c’era nemmeno un albero e questo peggiorava la situazione. Io e Livio Berruti fuggimmo dalla città e ci rifugiammo a Rocca di Papa. Lì c’era più fresco ma nessuna struttura per allenarsi, niente di niente. Da quel punto di vista l’organizzazione aveva commesso un errore oppure non aveva saputo prevedere qualche soluzione adatta a noi. Restammo lì qualche giorno, forse addirittura una settimana, senza fare niente di niente. Non lo dico per trovare scuse, perché anche Livio era lì e poi direi che in pista ha fatto un capolavoro. Se non altro, in gara non sono poi andata così male”.
La gioia prima della delusione
“Lo stadio e il pubblico italiano erano qualcosa di indescrivibile. La finale una grande emozione, malgrado la mia solita partenza un po’ così, perché quello è sempre stato il mio punto debole e la mia qualità migliore era quella che allora si chiamava progressione e che oggi sento chiamare “il lanciato”. Sapevamo che la Rudolph era la più forte, ma per gli altri piazzamenti era tutto da vedere. Io sono riuscita a rimontare bene nella seconda parte ma all’arrivo nessuna era riuscita a capire cosa fosse successo. L’inglese, Dorothy, Hyman, era all’interno mentre io ero in quinta corsia e quindi eravamo distanti. Poi c’era Mariya Itkina, la sovietica, che era convinta di aver preso una medaglia”.